NicoNote aka Nicoletta Magalotti, prima di trovarsi a curare la programmazione del Morphine – luogo che definire privé è riduttivo – ha avuto un passato nella musica e prima ancora, da adolescente, ha avuto esperienze teatrali che le hanno permesso di scoprire la sua voce. Le fila della sua storia sono ben raccontate in questo articolo uscito su Il Mucchio Selvaggio del 2009. Grazie a Giovanna Silva ci siamo focalizzati sull’esperienza fantastica del Morphine, che ha aperto a Nicoletta una nuova parentesi: quella della notte vissuta come momento magico di dialogo tra musica, voce, poesia e teatro. Tutto questo per straniarsi ulteriormente da quello che avveniva sotto la Piramide e nel Titilla.
Una prima domanda banale: come nasce il MORPHINE?
NicoNote: Nasce per una circostanza assai rara, vale a dire grazie a un buon incontro fra un’azienda in espansione e alcuni creativi e artisti motivati. In sintesi nasce per il fortunato incontro di mercato e ricerca.
L’art director Loris Riccardi mi invitò a collaborare come artista a tutto tondo, aperta a tutto. Una fase interessante, che va circa dal 1993 al 2005 (poi l’assetto societario dell’azienda mutò e seppur mantenendo il marchio cambiarono le linee artistiche e di visione complessiva).
Quando Loris Riccardi mi prospettò di creare un privé dentro una roboante discoteca (un privé dal nome Morphine citando una canzone di Marianne Faithfull) io ero in una fase del mio percorso artistico di elaborazione e riflessione profonda sulla musica e sulla scena.
Avevo suonato molto alla fine degli anni 80 sia nella scena indipendente underground che per le prime aperture del mercato discografico italiano al rock, prima coi Violet Eves poi da solista con varie collaborazioni, ma ero rimasta profondamente bruciata dal sistema. Desideravo ritrovare un filo più profondo col mio fare musica e stare nella scena; desideravo sospendere le pratiche usuali. Mi domandavo come poter far confluire le arti sceniche e sonore per uscire dagli steccati, mi ponevo la questione della importanza della contaminazione. Mi ponevo la domanda di cosa poter fare in Italia, come mettere in circolo la mia creatività in una forma nuova, che fosse fuori dalle regole. La mia essenza dada-punk-beat-camp era in fermento e qualcosa di trasversale e fuori dagli schemi si stava creando. L’interesse primario era creare uno spazio che fosse “straniante” per un visitatore di discoteca. Per Morphine si partiva da concetti legati al clubbing, le prime chillout room londinesi ci davano un gancio internazionale nella tendenza del clubbing, anche se la nostra forza fu proprio il concept. Ovvero una sala trasversale, che fosse sia luogo di musica, clubbing, ma anche spazio installativo; un clima vivente, in un futuro-passato-presente remoto fuori dal tempo e dallo spazio.
una sala trasversale, che fosse sia luogo di musica, clubbing, ma anche spazio installativo; un clima vivente, in un futuro-passato-presente remoto fuori dal tempo e dallo spazio.
Diciamo che ho come processato e incanalato in questo progetto Morphine la mia agenda di contatti personali, professionali e di conoscenze artistiche, stimoli allo studio e alla ricerca, visioni e suggestioni. Ho avvertito subito che Loris Riccardi mi stava dando l’occasione per fare qualcosa di unico. L’intuizione fu proprio questo dare una cifra, a partire da una visione personale, come artista/curatrice in continuo dialogo con l’estetica complessiva del locale, curata da Riccardi, vero genio di comunicazione e intercettatore di nuovi segnali sul pianeta.
Siamo stati un team di lavoro molto affiatato e creativo, abbiamo puntato sul marchio del locale, sul brand, ancora prima che venisse definito in termini di marketing consapevole (il marchio del locale venne creato da Loris a partire da una commistione di segni legati al mondo della musica che qui non svelo).
Il nostro lavoro su Morphine diveniva proprio per la sua estrema unicità una scelta di marketing anche se non so fino a che punto la scelta sia stata consapevole, come dire che il mercato è stato funzionale alla ricerca. Ricerca che ha mosso in avanti il mercato, lanciando un forte messaggio di comunicazione.
Per me fu estremamente interessante lavorare per il progetto Morphine per vari motivi, poiché come lavoro mi permetteva l’aspetto artistico della sperimentazione personale e l’aspetto creativo del concept e della programmazione artistica.
Oltre alla vasta programmazione organizzata in tutta la mia collaborazione per Morphine, insieme con il dj e producer David Love Calò, abbiamo creato improvvisazioni musicali che mi hanno portato a definire un modulo espressivo, che ha nell’ambiente-spazio-luogo dell’happening una parte integrante della scrittura vocale.
In generale posso dire che in essenza la serata aveva un carattere installativo, dal sapore e retaggio Fluxus.
Mi sembra interessante come lei abbia creato, per prima all’interno di una discoteca, uno spazio di contaminazione artistica, una piattaforma per happening, per scenografie teatrali, artistiche, architettoniche; ce ne può raccontare qualcuna?
NN.: Riccardi era instancabile nei suggerimenti, perlopiù legati a citazioni cinematografiche, ma anche soluzioni in accordo con il tema che ogni sei mesi si lanciava come slogan della stagione.
Lo spazio veniva ricondotto a un concept, come luogo da vivere o abitare in forma onirica. Importante per noi e sempre centrale era il ruolo della musica, che “vestiva” anch’essa lo spazio. In questo senso anche se rischio di ripetermi ogni allestimento era sottolineato dalla colonna sonora di David Love Calò, sulla quale durante la serata mi inserivo sovente e nei momenti meno usuali solo col canto, oppure accompagnata da strumentisti.
Una sorta di percorso tra il sogno e il concept stando tuttavia attenti che non fosse mai troppo concettuale, in altre parole non dimenticando che il contenitore generale era una discoteca. A questo proposito sottolineo che anche la collocazione del Morphine cambiava a ogni stagione: venivano utilizzati e riutilizzati spazi liberi all’interno della cubatura complessiva del locale.
la collocazione del Morphine cambiava a ogni stagione: venivano utilizzati e riutilizzati spazi liberi all’interno della cubatura complessiva del locale.
Per esempio da spazi di verde all’interno inutilizzati d’inverno venivano ricavati di volta in volta aree abitabili. Molto interessante dare novità semplicemente reinventando gli spazi e i percorsi per arrivare alla nuova destinazione. Molto stimolante dal nostro punto di vista. Alcuni esempi in ordine sparso:
l’andro del matematico cibernetico, con lavagna e gessetti, alambicchi, cyber clima e amici fisico-matematici a declinare teoremi e formule durante la notte sulla lavagna.
Solo erba, erba fresca, un grande giardino con un tappeto d’erba fresca. Si poteva entrare solo a piedi nudi lasciando all’ingresso le scarpe e all’interno si poteva bere solo acqua, stare seduti sull’erba con cuscini o direttamente sul manto. Anche il dj a terra.
Una casetta prefabbricata in legno nel giardino esterno, che diveniva luogo-curiosità-casa come da bambini-privé. Allestimento estivo: anche la parte fuori vivibile con grandi divani tondi in mezzo all’erba, con una macchina della neve come ossimoro nel caldo d’agosto. Contraddizione ironica. La casetta di colore giallo paglierino. D’inverno con una sorta di cunicolo tunnel si arrivava alla casetta divenuta bluscuro dark: assumeva una sua connotazione più urban, cyber. Un enorme vetro divideva lo spazio casa al suo interno a metà.
Un labirinto di pareti disegnate a righe bianche e nere sottili, un dedalo di corridoi dove perdersi e non riuscire a ritrovarsi, che sfociava in una zona angusta in cui il bar e la consolle erano adiacenti, praticamente in commistione.
Un giardino, un labirinto fatto di alberi che riempivano tutto lo spazio percorribile; per entrare bisognava farsi spazio tra gli alberi, ingombro assoluto, la consolle posizionata in vista separata da un alto vetro.
Un ambiente orientale. Con lanterne rosse e broccati, come una taverna nella Bangkok del 1920, mille cuscini su un lungo divano e il dj come cerimoniere.
Una sala quadrata tutta rossa, neon rossi. Solo rosso. Luce rossa.
Una sala piccolissima, 3 metri per 3 con sassi, ghiaia e teloni in pvc, solo 2 panche in legno ai lati, il dj nascosto in una sorta di hangar pertugio.
Una sala tutta bianca con luce bianca accecante, fiori bianchi di metallo.
Una sala nera il cui soffitto era pieno zeppo di pupazzi di ogni genere.
Una serra, una vera serra costruita in ferro, legno e vetro, con piante aromatiche, felci e gerani, irrigazione, neoclima da serra e terriccio a terra.
Il corridoio, vale a dire proprio la zona di passaggio tra una parte e l’altra del locale, la pista da ballo nel corridoio, il dj in una vetrina a vista nel corridoio, con la sola musica a delimitare lo spazio. Un piccolo angolo rientrante del muro dava l’idea di salotto, con carta da parati new romantic e poltrone dorate. Insomma. uno spazio luogo/non luogo molto interessante.
Il primissimo Morphine partì come esperimento. Era una tenda di teli in pvc nello spazio del giardino, ricoperto all’interno con miriadi di tappeti che scenografavano la struttura, col risultato di essere una sorta di tenda araba.
Era novembre e la questione riscaldamento non era proprio risolta, ma con poche persone all’interno, proprio come una tenda di sosta nel deserto, il calore saliva e col suono e il resto tutto aveva un suo fascino, un’alterità. Ecco, è stato forse quello di cui ci siamo occupati principalmente nella definizione dello spazio. Alterità come valore estetico fondante.