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Mauro “Boris” Borella

Link Muzik o Muzak?

Mauro “Boris” Borrella è una figura chiave per capire le scelte del Link Project in fatto di musica elettronica. Genovese d’origine, arriva a Bologna nei primi anni Novanta con la voglia di mettersi in gioco e un desiderio di rivalsa nei confronti del mondo della notte, a causa soprattutto dell’approccio di discoteche e radio mainstream. Al Link, concertando con le altre redazioni le sue scelte, Boris trova la propria dimensione (più avanti perduta e con onestà ci spiega come sia successo) e instaura un rapporto stimolante e collaborativo con numerose realtà internazionali. Con il suo lavoro e la collaborazione di Andrea Benedetti e Marco Passarani, al Link sono passati: Aphex Twin e molti della Rephlex, Marco Carola, un giovanissimo Plastikman, Alex Paterson dei The Orb, Jeff Mills e molti altri con cui balliamo ancora oggi. Ci racconta com’è iniziato tutto partendo da un rave gitano sotto il ponte del Reno.

 


 

Nella provocazione del titolo si ritrova la visione o, meglio, la proiezione d’ascolto che ci ha accompagnati nel Link di via Fioravanti 14, dietro la Stazione Centrale di Bologna dal 1994 al 2004, e per qualche anno anche nella nuova e attuale sede di via Fantoni 21 (sempre a Bologna) in zona San Donato; un’area suburbana dove il Link, nonostante le problematiche dovute al folle decentramento, è ancora vivo e lotta anzi, balla insieme a noi.

Al Link ci ero arrivato infilandomi tra gli spiragli del centro sociale Isola nel Kantiere e il collettivo del corso che frequentavo al Dams, con un ruolo che andava dallo spettatore al fiancheggiatore. Finché, a un certo punto, stanco di troppo settarismo estetico-musicale o elitarismo intellettuale, decisi di mettere in pratica quello che volevo fare fin dall’età di 10 anni: organizzare spettacoli in cui coinvolgere più gente possibile, sia sopra che sotto il palco. E così feci per i successivi 15 anni.

Decisi di mettere in pratica quello che volevo fare fin dall’età di 10 anni: organizzare degli spettacoli in cui coinvolgere più gente possibile, sia sopra che sotto il palco. E così feci per i successivi 15 anni.

A onor del vero chi mi offrì l’occasione di mettermi in moto e in mostra in tutta la mia attività e voglia di muovermi furono i miei compagni di università, che mi incaricarono di organizzare il gran finale di un’iniziativa pro-spazi, in pratica mettere in piedi il primo e unico rave etnico elettronico – mai più rifatto – in Italia, “The Rage of Gyspy Rave”, “La rabbia del rave dei gitani”.

Il primo rave illegale a Bologna fu insomma organizzato per attirare l’attenzione su alcune famiglie profughe della guerra in Jugoslava, che allora stazionavano sulle sponde del Reno. Sotto un ponte allestimmo una festa in cui violini tzigani e giradischi Technics si unirono fino al mattino miscelando musiche e persone come non era mai accaduto prima. Tutto venne organizzato con la benedizione dell’Opera Nomadi, la curia cittadina, che scongiurò irruzioni di reparti speciali o vigili urbani avvertendoli circa la buona causa dell’evento e nonostante il casino delirante.
Si può quindi dire che il cardinale Biffi fu il mio primo sponsor e indiretto pigmalione, perché grazie a quel festone (ancora oggi memorabile) mi accreditai in città come organizzatore di eventi di musica elettronica, e con tale benedizione l’anno successivo mi si aprirono le porte di via Fioravanti (manco fosse San Petronio).

 

The Rage of Gipsy Rave, 1993 Bologna
The Rage of Gipsy Rave, 1993 Bologna

 

In quella che poi sarebbe divenuta la “basilica” della musica elettronica da ballo e da ascolto il quesito fu subito: intrattenere o sorprendere? Infastidire, cercare la rottura, anche dei timpani alle volte, disattendere le aspettative, violare il consenso di quella musica commerciale di facile ascolto e poco impegnativa, diffusa come sottofondo solo per intrattenere, oppure trovare un altro modo per scuotere coscienze e opinioni ?

Nessuno poteva dare una risposta; le intenzioni non erano chiare, di certo far soldi, ai tempi, non interessava a nessuno, di rompere troppo le palle nell’accezione anti-music-system (vedi punk, hardcore, indie o altro del genere) nemmeno.
Si preferì quindi una via mediana, in modo da soddisfare e placare gli animi dei primi redattori musicali, che lavoravano per l’house organ e che si incontravano ogni martedì pomeriggio in riunioni di palinsesto aperte a tutti (oggi impensabili). In quei momenti di alta dialettica si cercava di andare incontro a un pubblico colto, universitario, molto più attento e critico dell’attuale (a pari età e livello di scolarizzazione).
La redazione coinvolgeva musicisti e persone molto competenti nei loro generi: Stefano Zorzanello, Enrico Croci, Alberto “Albertik” Bario e altri che arrivarono dopo come Clinio Occhi, Paolo Gabrielli, Renato Amata, Flavia Dangeloantonio, Daniela Cattivelli, più qualcuno che non ricordo o che ho dimenticato. La redazione era aperta a tutti e sempre pronta ad accogliere, o rifiutare, le proposte esterne, la maggior parte delle quali non aveva un’auto sussistenza economica e nemmeno contenutistica.

Per sedare quei momenti di tutti contro tutti, tipo partita di calcio fiorentino, quando ognuno di noi pensava di avere in tasca il verbo musicale, venne coniata (forse da Clinio Occhi) la frase manifesto “spazi differenziati a velocità sonora variabile“

“spazi differenziati a velocità sonora variabile“

che mise d’accordo tutti, dividendo l’organizzazione degli eventi musicali negli spazi (sale) e nel tempo (giorni della settimana).
Le serate iniziarono a prendere forma nelle prime due sale allora allestite, quella Blu al piano superiore e la Nera (ancora in allestimento) nel seminterrato; si iniziava con i concerti per poi lasciare spazio a live elettronici e ai primi, timidi, dj set, mal digeriti dall’intellighenzia interna (e soprattutto esterna), che li considerava ancora troppo discotecari e destroidi (della serie: il reggae è di sinistra, la techno è di destra o idiozie simili)

Ma si andava avanti, si lottava. Da una parte la difficile musica eterodossa, post jazz (vedi la scuola Ivan Illich e/o Angelica Festival) fuoriuscita da via Guerazzi 20, una delle sedi del DAMS, e dal suo collettivo Damsterdamend e da tutte le realtà produttive nate in quelle improvvisate sale prove, e dall’altra il primo post rock, i rimasugli dell’hip-hop, un po’ di EBM, noise (meglio se giapponese) e soprattutto la prima dance elettronica o techno che, superato l’edonismo dei club rivieraschi e la proposta “albertina” delle radio mass market come Deejay o Radio Italia Network, si stava rivelando nella sua accezione più intelligente e riflessiva.

 

I rapporti con le altre redazioni non furono subito dei migliori; già si percepiva la diffidenza nei confronti di chi, come noi, spingeva per l’apertura del Link verso contenuti indirizzati a una frequentazione più trasversale e disimpegnata, ma non ci potevano ostacolare più di tanto: il Comune non passava un ghello (un soldo – n.d.r.) e che ne dicano oggi a distanza di anni noi, i concerti e il bar, eravamo i finanziatori neanche tanto occulti della struttura e del progetto e questo ci permise di proseguire nel percorso del Link Project.
Le prime suggestioni ci arrivarono dai vicini Mutoid Waste Company (erano e sono a Santarcangelo di Romagna) di cui faceva parte Martin Paterson, fratello di quel Alex Paterson dei The Orb. Proprio con quest’ultimo organizzammo i primi rave party e la prima vera serata di grande richiamo quando al Link nell’autunno del 1995 si aprì la sala bianca, con un’indimenticabile selezione multi genere di Alex coadiuvata da un’istallazione dei Mutoid, delle nostre Officine Alchemiche / Gruppo Zero.

 

 

Preferimmo fare questo tipo di party rispetto a un’esibizione di un certo Sven Väth giudicato allora e giustamente troppo commerciale per il nostro centro. La data di Sven Väth l’avevo proposta negandola io stesso: era un bonus per l’annullamento di un suo dj set previsto nell’estate precedente al Cocoricò, club dove lavoravo come consulente alla programmazione dei dj stranieri (e sulla riviera si potrebbe aprire un altro capitolo, ma focalizziamoci sul Link). Decisi io stesso che il Link non era il luogo per Sven e per il suo sound, allora decisamente euro trance; ricordate Harlequin / The Beauty & The Beast?

 


 

Con quella decisione, condivisa da tutta la redazione, marcai territorio e pista, come un cane su un angolo; e la mia urina era acida, anzi caustica come il “Caustic Window”, che al Link avrebbe poi suonato per anni.

 

aphextwin link
Link Project 1995, Aphex Twin aka Caustic Window

Ma qui siamo andati troppo avanti. Torniamo a quel rave illegale sotto il ponte del Reno: fu un momento topico per tutta quello che sarebbe accaduto dopo. In quell’occasione, grazie ad Alessandro Bocci (membro degli Starfuckers e degli M16), venimmo in contatto con Fabrizio Usberti / DJ Kalapodis e con la sua Sinapsi Distribution. Grazie a questo personaggio geniale e istrionico, mio concittadino genovese, si creò uno snodo verso l’Europa del nord dove comprava e vendeva rarissimi dischi da mitologiche distribuzioni straniere, prima fra tutte la Planet Corp Production (PCP) di Francoforte. Attraverso questi scambi di techno-hardcore ad alta qualità si iniziarono a chiamare i primi dj e live act, veri e propri lasciapassare dei grandi techno club italiani dove si suonavano i dischi di: PCP, Industrial Strengh, Rotterdam Records e altri. Missili terra aria lanciati verso i locali di quell’epoca: l’Asylum di Jesolo, il Cocoricò di Riccione, il Matis di Bologna, il Teatriz di Lugo e pochi altri, locali che dopo un po’ però ci misero su una scialuppa e ci rigettarono a mare. Quel circuito apparentemente tanto aperto nei costumi si rivelò molto chiuso nelle proposte musicali e nella volontà di collaborare con forze esterne, costringendoci a rifugiarci (senza rimpianti, sia chiaro) nella nostra sede in via Fioravanti dove organizzammo “resistenza” e contrattacco.

Quel circuito apparentemente tanto aperto nei costumi si rivelò molto chiuso nelle proposte musicali e nella volontà di collaborare con forze esterne, costringendoci a rifugiarci (senza rimpianti, sia chiaro) nella nostra sede in via Fioravanti dove organizzammo “resistenza” e contrattacco.

La decisione definitiva avvenne dopo l’infausta data della Rephlex Records al Cocoricò durante una festa del SILB, manifestazione fieristica nata per operatori tecnici nel settore audio-light, diventata negli anni un incontrollato baraccone prequel delle distruttive Federica Baby Doll o Nacha DJ. In quella corte dei miracoli un timido Saccoman bloccò la selezione musicale di Grant Wilson Claridge, equalizzata a quattro mani da sua maestà Richard D. James aka Aphex Twin (allora ventenne), per le lamentele di un pubblico a cui Cylob (sempre della Rephlex) aveva già tagliato le gambe con un live appositamente edulcorato, ma non abbastanza.

Oltre a questo dramma che la scena italiana si porterà dietro nella storia, ricordo anche un aneddoto più divertente, ovvero che a un certo punto non trovavamo più Aphex che poi scoprimmo essersi nascosto sotto i cuscinoni del Morphine, dove era rimasto finché una coppia non gli si era seduta sopra facendolo sobbalzare.

A fine serata però tutti i guest rephlexiani invitati erano molto arrabbiati e promisero di non tornare più in Italia. Penso che a Richard non sia mai più capitato nella sua carriera di venire bloccato durante un set; quando lo rincontrai a Londra la prima cosa che mi chiese fu se il Cocoricò era ancora aperto.

Quello di AFX cacciato dalla console del Cocoricò fu il punto di non ritorno, nonché l’acquisizione di piena e tardiva consapevolezza che tra le due scene c’era (e forse c’è ancora) una differenza incolmabile.