Prima di dedicarsi all’Aleph l’architetto Giovanni Tommaso Garattoni è stato tra gli ideatori e fondatori, nonché dj, dello Slego uno tra i più importanti rock club d’Italia. Ha risistemato un’ex balera chiamata Dancing Sirenetta, della casa del popolo di Viserba, e si è dedicato fin da subito all’immagine del club, rendendolo immediatamente riconoscibile. In questo compito non era solo: con lui c’erano Stefano Campana, Maurizio Castelvetro, Stefano Ferroni, Sauro Fiori, Massimiliano Sirotti e insieme erano lo studio di grafica chiamato Complotto Grafico.
L’architetto Garattoni è stato inoltre tra i fondatori del movimento italiano chiamato Bolidismo e nel suo eclettismo ha disegnato abiti maschili e borse in pelle, oltre ad aver realizzato, in occasione della manifestazione Nightwave 2000 (fiera delle discoteche, dall’abbigliamento agli impianti luci che si teneva a Rimini), il documentario esistenzialista intitolato “Disco 2000″. Di seguito, riportiamo il materiale che Giovanni ha presentato in Biennale e ci racconta di cosa si è occupato allo Slego.
SLEGO!
Londra, ottobre 1979: da qui, almeno per me, é iniziato tutto. Avevo frequentato il Marquee ed avevo capito che “fare” un locale era possibile.Era possibile pensare ad un piccolo club underground pur in un mondo di discoteche. Aperto magari solo d’inverno.
Nello stesso periodo L’Altro Mondo si era rinnovato, spendendo una cifra folle (non solo) per l’epoca: 1 miliardo e mezzo di lire.
Noi invece non avevamo un soldo. Non volevamo diventare imprenditori. Volevamo solo divertirci; la nostra debolezza era la nostra forza.
Così nacque lo Slego: era il 23 novembre 1980 ed era una domenica pomeriggio.
Una vecchia balera anni sessanta di una casa del popolo alla periferia di Rimini (si chiamava Dancing Sirenetta ed era anche la sede del PCI della sezione di Viserba) improvvisamente divenne meta di coloro che cercavano un luogo davvero “alternativo” ed una musica che rappresentasse il loro (nuovo) mondo.
Un locale dove divertirsi ballando: ska, punk, new wave; ma anche beat revival e rythmn & blues; in un’epoca dove il ballo era ancora considerato un gesto reazionario lo Slego era un locale che si lasciava alle spalle gli anni Settanta fatti ancora di “assemblee e dibattiti”.
Divenne un luogo dove ballare una musica che era quanto di più “contemporaneo” fosse possibile ascoltare, e non solo in Italia.
Per chi non ha vissuto quegli anni é impossibile capire quale distanza (anche fisica) ci fosse tra il “giro” dello Slego (ma anche dell’Aleph e di Radio San Marino) e tutti gli altri locali italiani.
Lo Slego era un locale del tutto immaginario, che poteva proiettarti simultaneamente (non caso uso un termine “futurista”) nella Londra del 1965 o nella New York del 1980. Dove un singolo di Caterina Caselli veniva subito dopo i Cure.
Slego Psycodancing, l’ultimo locale beat, così appariva nelle prime locandine. Un locale fatto di niente o, meglio, fatto dalla mente per il corpo.
A ben vedere la “modernità” dello Slego era ancora più “post-moderna” di quello che noi all’epoca credevamo; la totale assenza di arredi e scenografie permetteva al dj di cambiare, alla velocità della luce, quelli che oggi chiameremmo “paesaggi sonori”, facendo vivere una esperienza unica.
Determinante fu la grafica.
Dapprima i volantini in bianco/nero fatti con il ciclostile (quello delle manifestazioni di piazza); l’originale lo realizzavo in casa con una Olivetti, pennarelli forbici colla e poi (che lusso) una fotocopiatrice, usata in modo “creativo” e “dinamico”.
Ma per un locale unico serviva un’idea unica; quindi cosa di meglio dei classici manifesti 70×100 per storicizzare la contemporaneità?
Ogni manifesto era una scommessa, anche tecnica; il computer non esisteva e la grafica era affare di “pochi” ma tanta era la voglia di sperimentare
Dapprima vennero quelli fatti a mano, serigrafati ad uno, due, tre colori, stampati in un centinaio di copie. Andarono a ruba.
Poi venne l’idea di utilizzare i caratteri a piombo delle vecchie tipografie; bene o male era sempre una casa del popolo; metodo efficace, economico e, soprattutto, snob.
Poi la tentazione di creare delle icone divenne irresistibile: manifesti da collezione per un locale: non lo aveva mai fatto nessuno. Non semplici manifesti ma veri e propri manuali di stile.
Lo Slego indicava la strada sulla musica, sull’abbigliamento, sullo stile, ma poi tutti erano autorizzati, anzi invitati, ad interpretarla. Indicazioni ben riconoscibili per chi sapeva leggerle, criptiche invece per tutti gli altri. E talvolta il nome del locale era quasi illeggibile.
Ogni manifesto era una scommessa, anche tecnica; il computer non esisteva e la grafica era affare di “pochi” ma tanta era la voglia di sperimentare: così nacque la quadrilogia neo-psichedelica 1984-1987. Un orecchio alla musica ed uno alle tendenze, come sempre.
Il primo manifesto era un omaggio ai Byrds ed al suono americano alternativo allora ri-nascente ed ai viaggi “psichedelici” verso oriente. La California e la Wiener Werkstatte, i cui fasti erano stati appena celebrati con una grande mostra a Venezia proprio nel 1984.
Il secondo manifesto voleva omaggiare, venti anni dopo, la Londra in bianco e nero del 1965. Un viaggio nel tempo, non solo metaforico, con un “cappellaio matto” in primo piano ed un enorme orologio alle sue spalle. Lo stesso orologio che fu costruito e posto sul soffitto al centro della pista: dalla fantasia alla realtà. Rimase il simbolo del locale fino alla fine.
Il manifesto del 1986, il terzo, voleva essere un inno alla libertà ed alla cultura motociclistica.
Una (allora) esclusiva Harley Davidson targata “Forlì”, (e cavalcata da un “cappellone” ovvero quanto di più distante dall’estetica “new wave” ma proprio per questo d’effetto) su una strada deserta ed un (fintissimo) catus appariva (come in sogno) tra altre immagini auto-celebrative dello Slego.
La California e/é la Romagna.
Infine, nel 1987, il manifesto più cupo che, non a caso, fu anche l’ultimo della serie.
In una cava lungo il fiume Marecchia abbiamo fotografato, quasi al buio, alcuni amici dello Slego assieme alle loro auto e moto: un tramonto stellato e post-nucleare per un’epoca (non solo musicale) che si stava concludendo.
Gli anni ottanta, quelli cosmopoliti, creativi ed innovativi, erano davvero finiti.
Non a caso, sullo stesso luogo, di lì a poco sarebbe arrivata la Mutoid Waste Company.