Silvia_Fanti_Ghedini_Notte_Italiana_Zero_Link_project_bologna

Silvia Fanti

Link Project Perform. Intervista a Silvia Fanti

a cura di Emanuele Zagor Treppiedi

QUALI SONO STATE LE COMPAGNIE CHE HANNO FATTO LE COSE PIÙ INSOLITE E COME UTILIZZAVANO LE SALE?
Più che teatro insolito era teatro sperimentale. Faccio alcuni esempi, tanto per intenderci.
“Romeo & Juliet” e “Storia infelice di due amanti” (del 1999, lavoro che per me è in assoluto la migliore creazione di Fanny & Alexander) veniva rappresentato contemporaneamente in due spazi attigui per due diversi pubblici – all’oscuro di questa compresenza. I Fanny avevano predisposto un muro di mattoni con una porta attraverso cui passavano i performer che agivano di qua o di là dal muro sui due fronti scenici. Quando qualcosa succedeva da un lato, dall’altro c’erano dei vuoti interpuntati solo da piccoli accadimenti quasi impercettibili, cuccioli di gatto che gironzolavano, per esempio.
Era un’opera bifronte che lavorava sulla questione del tempo e del mimetismo: in alcuni casi il tempo scenico scorreva senza un’azione, però c’erano questi animali che mantenevano una dimensione di vita. Alla fine il muro veniva abbattuto, e i due pubblici scoprivano questo aldilà speculare e la sua drammaturgia di incastri.

Sempre con Loredana Putignani abbiamo portato nella Sala Bianca un vero ring da box per “Miseria Ring”. Aveva coinvolto due bambini pugili, li aveva trovati al dopolavoro dell’azienda di trasporti di Bologna, erano fratello e sorella di 10 e 11 anni, e con loro c’era Loredana, pura presenza osservante di una lotta simbolica.

“Siamo qui solo per i soldi” di Roberto Castello (1995), concerto di danze e musica rock ispirato a Frank Zappa e inframmezzato da parlati di contenuto politico, dissacrava la danza con intromissioni del quotidiano. Una “marmellata coreografica” l’aveva definita Roberto.

Virgilio Sieni aveva lavorato a una coreografia con i pattini e attraversava lo spazio senza utilizzare le rotelle, come fossero i passi di una geisha.

C’era una dimensione visivo/installativa delle azioni, decisamente inedita per quegli anni, perché quella sala era in effetti un white cube, non il tradizionale black box della finzione scenica teatrale e gli artisti stessi lo interpretavano con possibilità diverse, collocando oggetti che funzionavano da attivatori.

 

Marion D’Amburgo dei Magazzini Criminali si mise a recitare immobile dentro un grande vestito inchiodato a terra per parlare dell’immobilità forzata e dell’estasi.

O ancora, il Teatrino Clandestino aveva creato per “L’Idealista Magico” (nel 1996) una gabbia di Faraday al cui interno gli attori recitavano e conducevano esperimenti su elettricità, magnetismo e magia, come in una “serata elettrostatica” di fine ’800.

 

 

MI PARLI DEGLI INCONTRI DI IMPROVVISAZIONE RADICALE? ERA SEMPRE TEATRO?
Erano incontri di musica fatti al Link e all’Ex Bestial Market, altro centro occupato a Bologna. Si facevano ad appuntamenti alternati in due spazi occupati, e coinvolgevano sia musicisti locali che guests. Il programma era fatto quindi a più mani dai due centri. Coinvolgeva due pubblici diversi ed è servito molto per incentivare lo scambio e fornire stimoli alla ricerca musicale a Bologna.

ALL’ESTERO COSA SUCCEDEVA INTANTO E COME VI VEDEVANO ANCHE IN ITALIA?
All’estero il Link Project era percepito nel suo insieme, per il forte intreccio interdisciplinare. E operatori ben più maturi di noi (mi ricordo di Frie Leysen o di Franco Quadri) venivano da Milano o da Bruxelles per fare quello che oggi si chiama scouting, seguendo sia le giovani compagnie nascenti, sia osservando le dinamiche anomale create in questi spazi.

NON C’ERA INTERNET, SI BASAVA TUTTO SULLE RELAZIONI, TUTTO IN MODO ANALOGICO…
Avevamo una segreteria, degli spazi da ufficio, ma non è che fossimo attaccati e così attenti a quella scrivania. Non c’era internet agli inizi e nemmeno i cellulari. Ricordo che il Teatrino Clandestino aspettava un ospite che veniva dalla Francia. Il giorno della prima son stati costretti a destinare un attore al telefono di quell’ufficio per aspettare la chiamata di questa signora, tutto il giorno…
Sì, tutto era totalmente esperienziale, da affrontare anche fisicamente.
Certo che era un mondo analogico, il che significava di finire pure a fare a cazzotti, certe volte, per ragioni di convivenza… Hai spostato questo o quello, fate silenzio che ci son delle prove… Insomma ci sono stati dei momenti di difesa forte.

Però, nonostante l’assenza di Internet si sapeva benissimo cosa succedeva all’estero, seguivamo quello che accadeva fuori, anche se all’inizio non ci passava ancora per la testa di fare inviti internazionali. Significava entrare su un’altra scala di economie e  di rapporti.
Il cambiamento di rotta forte, voluto, scelto, è avvenuto nel 2000 – e già stavamo passando da Link Project a Xing – quando abbiamo fatto due micro-festival: Hops! e Corpo Sottile. La scelta è stata quella di affacciarsi sui nuovi fenomeni che stavano emergendo in Europa. Era la scena che è stata chiamata in maniera un po’ semplicistica non-danza. In quella fase i riferimenti si sono spostati dal teatro di ricerca italiano a chi all’estero (Francia e Germania soprattutto) veniva dalla danza ma l’aveva negata, per arrivare a forme espressive molto vicine alle performing arts, dove non c’era più il virtuosismo legato al movimento, ma delle messe in scena di forme di pensiero, con un approccio al corpo e alla rappresentazione più concettuale e trasversale.
Era un pool di artisti internazionali che in Italia non era mai venuto, e che abbiamo continuato a seguire nel tempo. Tuttora come Xing seguiamo le evoluzioni e trasformazioni di quel movimento.


CON INCURSIONI, FESTIVAL TRA IL PERFORMATIVO E L’AUDIO-VISIVO CURATO DA LUCA VITONE SI ATTIVAVA UN MECCANISMO DIVERSO, UN MIX DI COME SI POTEVA USARE IL LINK?
Incursioni aveva un taglio più avanzato, perché aveva dei riferimenti espliciti alle performing arts degli anni 60 e 70 e, a differenza della programmazione teatrale che aveva un unità temporale e uno sviluppo drammaturgico più ampio, il festival di Luca Vitone si basava sul formato breve Ci si confrontava con Luca Vitone sugli inviti, ma spesso erano degli artisti visivi che Luca spingeva verso un’attività performativa, era una scoperta per loro ma anche per me.
Tutti questi esperimenti collaborativi, questi intrecci disciplinari, ci hanno formato. Ho imparato molte cose da artisti visivi la cui sensibilità, la cui storia, era diversa da quella da cui io provenivo. Fondamentalmente, con Incursioni l’approccio era più minimale, le azioni degli artisti erano come “immagini attivate”, degli haiku che si intrecciavano in un palinsesto di accadimenti in più luoghi. È stato un percorso di avanzamento, con una sensibilità nuova da instaurare, alla quale la gente di teatro non era ancora abituata. Incursioni ci ha portato – positivamente – in questa zona di confusione di generi e di saperi.

Incursioni si è evoluto poi in Hops!, un formato condiviso dal team curatoriale (Luca Vitone, Daniele Gasparinetti, Andrea Lissoni, me e Giovanna Zapperi, che poi sarebbe diventato il nucleo fondatore di Xing) in cui abbiamo coinvolto più esplicitamente artisti dell’area performativa. È stata una bellissima apertura.

A UN CERTO PUNTO QUESTO FENOMENO ARTISTICO INVADE LUOGHI COME IL COCORICÒ? COM’È NATO IN QUESTI SPAZI?

Fanny & Alexander @ Cocoricò
Fanny & Alexander @ Cocoricò

Si, ricordo che Nicoletta Magalotti (NicoNote) seguiva il privé del Cocoricò, il Morphine. Lì alcuni artisti giovani ci andavano, ma non per fare teatro; realizzavano delle piccole azioni o installazioni viventi, e lì riuscivano a sperimentare con risorse che da altre parti non riuscivano ad avere. Era quasi una palestra protetta, e un doppio regime creativo. Anche questo cotè più disco ha avuto comunque il suo senso, perché ha sostenuto indirettamente un certo teatro, soprattutto quello dell’area romagnola.

QUELLO CHE NOTO INFATTI È CHE LA TERRA PIÙ FERTILE È STATA PROPRIO LA ZONA ROMAGNOLA, BOLOGNA, CESENA… TI VIENE IN MENTE ALTRO?
Non c’erano solo Bologna e la Romagna. A Roma in quegli anni c’è stata un’operazione che ha avuto una certa importanza, una piattaforma dedicata ai nuovissimi del teatro italiano, curata da Paolo Ruffini e Fabrizio Arcuri, che avevano fatto una chiamata a raccolta delle situazioni teatrali che sperimentavano e facevano teatro di ricerca a Roma e dintorni. Da quest’altra scena il Link aveva dato spazio a figure allora sconosciute, come Filippo Timi, persone in cui vedevamo già un potenziale, o Federica Santoro, una delle migliori attrici di quella generazione romana. Federica tra l’altro era anche molto vicina alla scena dell’improvvisazione musicale a Roma, che operava sotto il nome di Cervello a Sonagli e che coinvolgeva Fabrizio Spera, erano persone che organizzavano concerti nei centri sociali e nei centri di quartiere e avevano molto seguito.

il Link aveva dato spazio a figure allora sconosciute, come Filippo Timi, persone in cui vedevamo già un potenziale, o Federica Santoro, una delle migliori attrici di quella generazione romana.

Era un periodo in cui si lavorava sui circuiti, prima che sulla rete; sono gli anni di CIRCA, un circuito nazionale indipendente dedicato alle nuove musiche, e c’era una vicinanza tra teatro e musica, dove era difficile distinguere tra pubblico e artisti, e chi faceva teatro frequentava anche i concerti organizzati o suonati da altri amici.
C’erano altre realtà in Italia che avevano la nostra stessa sensibilità. A Milano c’era Giuseppe Ielasi che lavorava in ambito musicale, e c’era Alessandro Bosetti, e per il teatro il nostro referente era il Teatro Aperto di Renzo Martinelli e Federica Fracassi, e loro stavano al Leoncavallo.
Il punto più lontano geograficamente di quel circuito si trovava in Sicilia, a Catania, dove c’erano la Famiglia Sfuggita e Canecapovolto che lavoravano tra cinema sperimentale, performance e musica di ricerca.

UNO DEI NOMI PIÙ ALTISONANTI CHE POI AVETE COINVOLTO È JÉRÔME BEL…
Jérôme Bel l’avevo visto in Italia al Festival di Polverigi in una situazione decisamente fuori contesto. Mi aveva colpito il modo diverso di stare in scena, l’avevo cercato e l’abbiamo presentato nel 2000 a Corpo Sottile.
Anche Xavier Le Roy l’ho cercato perché mi aveva intrigato un servizio fotografico su una rivista tedesca. Lui, come Jérôme, lavorava sul corpo in un modo nuovo, con un approccio sperimentale, complesso e semplice.
Tutti artisti che ospitavamo a casa nostra, non in albergo.. c’era grande disponibilità a collaborare.

 

OGGI SECONDO TE UN ESPERIMENTO COME IL LINK SAREBBE POSSIBILE?
Credo che oggi l’estrema burocratizzazione in cui siamo immersi non lo renderebbe possibile. Noi abbiamo avuto la grandissima libertà di non dipendere da nessuno né economicamente né sul piano delle scelte artistiche.
Per mettere assieme delle teste, ci deve essere un contesto che lo permetta: il DAMS, le occupazioni, avevano creato in quegli anni le premesse e un terreno fertile a Bologna.
Il Link Project è stata un’esperienza complessa. Ci vogliono persone capaci di tessere e tenere insieme i pezzi, non si tratta solo di mettere in fila dei creativi e i curiosi, ma di avere anche un’idea di progetto sociale, estendibile e comunicabile.